Il napoletano che domò gli afghani (Neri Pozza), di Stefano Malatesta, è la straordinaria storia di un soldato di ventura del XIX secolo: il napoletano Paolo Avitabile, ex cannoniere borbonico che dopo varie vicissitudini finisce alla corte di Ranjit Sing, il fondatore dell’impero sikh.

‘O malommo, viene nominato dal maharaja governatore di Peshawar. La città pullulava di pericolosi individui, pronti a tagliare la gola per mezza rupia. Ma in poco tempo il napoletano riuscì a mettere ordine nella più turbolenta città asiatica abitata, allora come oggi, da una mescolanza di razze. I ladri sparirono, i rapinatori furono squartati, gettati dai minareti o impiccati agli alberi fuori le mura e i cittadini benestanti torturati perché mollassero il gruzzolo, grande o piccolo che fosse. Nell’oriente, si dava per scontato che per far pagare le tasse ai sudditi più negligenti fossero ammessi mezzi impropri come la tortura, ma Avitabile non tagliava nasi e orecchie per la ragion di stato ma per estorcere denaro a fini personali. Il suo cuore batteva solo per “la sua casa e il suo denaro”. Solo un secolo più tardi, a questo modo di fare, sarà applicata una definizione sociologica che non necessita di alcuna spiegazione: familismo amorale.

La sua figura incuteva un tale terrore che divenne leggendaria anche presso gli inglesi, i quali sostenevano che gli afghani guardavano Avitabile con la paura e la reverenza con cui gli sciacalli guardano la tigre. E ancora oggi le madri di Peshawar e di altre città pakistane, per farsi ascoltare dai loro bambini riottosi, minacciano di chiamare Abu Tabela, che è la traduzione locale di Avitabile.                                       

Buona lettura.